Essere etichettati è dannoso per tutti, figuriamoci per i detenuti

Questo articolo, che aveva come tema etichette e stigmi, è uscito sul n.4 del 2020 di Spiragli, la rivista del Polo Universitario Penitenziario della Toscana. Qui si può leggere tutto il numero.

“Tamarro”, “esaltato”, “riccone”, questi e molti altri sono esempi di etichette. Perlopiù innocue, va detto, perché una persona oltre che tamarra sarà anche altro. E magari non hanno conseguenze profonde nella vita di tutti i giorni, anche se possono disturbare. Venendo da luoghi in cui si sa tutto di tutti, o meglio, si crede di sapere tutto di tutti, posso testimoniare i problemi che esse creano. Spesso le cose vengono gonfiate, è pieno di malelingue che sfruttano l’occasione per parlar male di qualcuno. Una volta messa in circolo una teoria, è difficile frenarla.

Inoltre viviamo in un’epoca in cui spesso ci vogliamo auto etichettare, avendone gli strumenti, dove possiamo dare un’immagine di noi, apporre l’etichetta che desideriamo mostrare sul nostro modo di vivere. Anche questo non è sempre un bene.

Poi ci sono le etichette più condizionanti la vita di tutti i giorni. In questo periodo, specie agli inizi della pandemia, esiste lo stigma per chi è stato contagiato dal virus. E poco importa se colei o colui che è risultato positiva/o è in compagnia di centinaia di milioni di persone nel mondo. È un infetto, stiamone alla larga. Così come stiamo alla larga dai malati mentali, ad esempio.

Sema Kaygusuz, scrittrice turca, ha scritto un pensiero incentrato sulle donne, più precisamente sulle centinaia di migliaia di donne turche che vivono all’estero in Occidente. Per quanto possano aver studiato nelle nostre Università, lavorino nei nostri luoghi di lavoro, per quanto possano essere atee con una vita relativamente libera, appena mettono piede fuori dalla Turchia vengono identificate come donne musulmane. Vengono giudicate se bevono un bicchiere di vino, se non portano il velo, se fanno sesso. E vengono giudicate da occidentali, teoricamente dalle “visioni aperte”, che assumono le sembianze della polizia morale iraniana. Tutto questo a causa di etichette e di stigmi.

Questa premessa con degli esempi di etichettamenti è stata per dire: figuriamoci per chi è stato in carcere.

Per chi ha commesso errori, o reati, magari anche gravi. In un mondo che si divide tra chi pensa che debba essere “buttata via la chiave” e chi pensa che debba essere reintrodotta la pena di morte, chi è stato in carcere non ha possibilità di redenzione. Ormai gli si appiccica un’etichetta che difficilmente andrà via, e questo avrà conseguenze nel reinserimento nella vita quotidiana, che si parli di ricerca di un lavoro, di possibilità di relazioni sociali, di partecipazione alla vita civica. Sei stato in carcere, sei un delinquente. Stop.

Questo guardando alla fase della post-carcerazione. Ma questi stigmi sono già iniziati dentro il carcere. È proprio la carcerazione in sé a crearli. I detenuti entrano a far parte di un modello sociale che sostiene un’immagine degradante della persona condannata. Il rapporto con il corpo di custodia, la perdita della libertà, la deprivazione di certi beni e servizi, sono tutti fattori che influiscono a livello personale, sia sul giudizio che si dà di sé stessi, sia nei confronti delle relazioni interpersonali. E poi, come detto, c’è il marchio che rimane addosso a chi ha scontato la pena detentiva. Chi sceglie di tornare al proprio ambiente deve essere consapevole di doverci fare l’abitudine, e magari “mordersi la lingua” un certo numero di volte. Altrimenti un’altra soluzione può essere emigrare.

Come si può risolvere tutto questo? Forse solo con una battaglia culturale. Vale per tutti gli stigmi, vale ancora di più per gli stigmi sui detenuti, o ex detenuti. Sarebbe bello provare ad andare oltre.

È una battaglia forse persa in partenza. Ma è proprio per questo che chi pensa, e per fortuna ce ne sono, che sia più importante la riabilitazione della punizione, e che dal letame possano nascere i fiori, debba fare una battaglia a tutto campo per ribaltare questa concezione dannosa e ingiusta.

L'Autore

Matteo Guidotti

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