Il Vietnam visto dai vinti – Seconda parte

La seconda e ultima parte del racconto sul Vietnam.

Qui si può leggere la prima

Ho Chi Minh è come i leghisti

Il Mausoleo di Ho Chi Minh ad Hanoi è un luogo surreale, storico e curioso allo stesso tempo. Niente cellulari all’interno, si segue una fila silenziosa ed ordinata per arrivare alla salma, gran numero di guardie sull’attenti, la stanza dove è il leader con un freddo boia. Ci sono turisti ovvio, ma la maggioranza sono vietnamiti che, vestiti a festa, vengono a rendere omaggio al leader. Queste brevi righe sempre per dire che non tutti la pensano allo stesso modo. «Fanno tanti soldi. La gente paga il biglietto, compra i gadget, entra al museo, mangia», commenterà in seguito Phuong parlando del Mausoleo.

Faccio il nome di Ho Chi Minh, e come risposta ricevo non parole, ma una faccia disgustata da parte di Phuong. Che prosegue:
«E’ come quelli lì», indicando la televisione. «Tutti a dire che voleva il Vietnam unito, ma fin da giovane è sempre stato contro il Sud. ‘Sono i cattivi, creano povertà, schiavitù’. Altro che Vietnam unito». Ora, non ho modo di verificare queste dichiarazioni, sicuramente si riferiva al governo, eccetera. Ma questa equiparazione argomentata tra il leader vietnamita e “quelli lì”, cioè i leghisti, mi ha fatto sorridere.

Il Mausoleo di Ho Chi Minh ad Hanoi e una foto del leader vietnamita

A un certo punto delle nostre conversazioni Phuong e Thang sono entrati più nello specifico sulla guerra. Hanno parlato a lungo delle trattative di pace del 1972, dove gli Stati Uniti iniziarono a ritirarsi, perché «se non si ritirano, i vietcong non vincono mai». Più volte  hanno menzionato le spie Vietcong presenti a Saigon anche prima della vittoria, e si infiammano nel dire che è una caratteristica anche del Vietnam attuale quella di spiare e controllare. Poi, i contadini del Sud che aiutavano i Vietcong, ma questo è acclarato. Infine Phuong, letteralmente, dice che «quando hanno vinto, tanta gente è salita sul carro», espressione nota a noi italiani, ma che ci ricorda che talvolta tutto il mondo è paese.

Finalmente si parla degli americani, anche se, avendo vissuto al Sud quando la presenza statunitense era massiccia, speravo ne parlassero di più. Invece non avevano molto da dire. Lo stringato giudizio che danno sulla presenza americana riguarda il loro atteggiamento, «si comportavano bene», e il commercio: «avevamo rapporti solo per lavoro, quando compravano. Ma a noi interessava proprio questo: finché stavano là facevano girare i soldi, molti più di quanto potessero fare i vietnamiti». Quando il discorso si è allargato, più sulla guerra che sulla vita quotidiana, il giudizio è un po’ cambiato.
«Tutti a dire ‘americani cattivi’. Ma era guerra, e in guerra ci si uccide». Approfondendo però il ragionamento, anche loro definiscono “errori” molte cose fatte dagli americani. Sicuramente le bombe al Nord, che distruggevano città, villaggi e giungla senza colpire obiettivi strategici, né l’esercito, nascosto sottoterra o in qualche città cinese vicino al confine. Ma ecco l’errore più grande di tutti: «Gli Stati Uniti si sono fatti nemici il popolo vietnamita, uccidendo innocenti e bombardando le piccole cose in modo prepotente». In quale guerra non si uccidono innocenti? In nessuna, ma se ci si erge a superiorità morale, a guardiani del mondo libero, bisognerebbe saper far meglio.

Tengono però a specificare che «al Sud, prima di loro (dei Vietcong, ndr), si viveva bene. Al Nord no. E infatti quando hanno vinto quanta gente è scesa dal Nord al Sud».

«Promettevano di aiutare, ma come hanno fatto loro non è aiutare».

Il Vietnam di adesso

La seconda volta che sono entrato a casa loro la televisione era accesa su un canale della rete vietnamita, “NetViet”. In onda c’era un programma di cucina e un giovane cuoco stava cucinando gamberetti all’apparenza squisiti. Questi elementi sono stati l’argomento principale della seconda chiacchierata.

Sono partiti in tromba con il canale televisivo. «E’ solo di loro. Parlano del Nord, di Hanoi, niente Tg, tanto va tutto bene, ci dicono». Ecco, se ancora in qualche modo il governo vietnamita può essere definito comunista, più inteso come comunismo di Mao Tse-tung che quello di Enrico Berlinguer, il controllo dell’informazione è uno degli elementi che lo può classificare così. Avere un canale unico dove parlano solo “loro” è un atteggiamento tipico da regime. «Fino a pochi anni fa ce n’era uno del Sud, ma è stato chiuso”. Se ormai l’economia è molto più occidentale di molti Paesi occidentali, le libertà civili sono ancora quelle da regime chiuso. Un po’ come la Cina, pur con tutti i distinguo, dato che la Cina è la Cina. Phuong e Thang insistono molto sul controllo. «Anche ora in tutti gli alberghi del Vietnam ci sono spie, ti ascoltano». Mi è sembrato un po’ paranoico ed esagerato e ho provato a spiegarlo descrivendo un mio episodio. In un pulmino con una quindicina di persone da vari Paesi, la guida turistica ha tenuto a dirci, ridendo, che al governo c’è la corruzione. Ora, se ci fossero gli eredi del Kgb o della Stasi, la nostra simpaticissima guida credo si sarebbe trattenuta un po’ di più. Loro erano comunque convinti di quello che affermavano. Pochi giorni dopo la seconda chiacchierata ho letto una notizia: “La scrittrice e attivista per i diritti umani Pham Doan Trang è stata arrestata in Vietnam e accusata di propaganda contro lo Stato”. Forse esagerano a parlare di spie in tutti gli alberghi, difficilmente esagerano sul controllo ancora presente nel loro Paese.

Un altro elemento di conversazione uscito grazie al programma sulla cucina è proprio il cibo. Il Vietnam ha una grande tradizione culinaria, il cibo vietnamita è famosissimo in tutto il mondo e in Vietnam si mangia da Dio. Alla domanda “cosa vi manca di più?”, al primo posto hanno messo i parenti, al secondo il cibo. «Anche se ora è pericoloso». Li interrogo sull’affermazione, ricevendo un flusso di risposte simile a quello di quando avevo chiesto i motivi del loro abbandono dal Paese. Anche qui si mischiano forse un po’ di convinzioni reali e un po’ di paranoie. Iniziano raccontando che fino a pochi anni fa tutti i mercati avevano gli animali vivi, cosa di cui si è molto sentito parlare in questi mesi. E provano a spiegarmi l’importanza del cibo e della sua freschezza: «La mattina i prezzi erano più alti, poi da mezzogiorno scendevano perché la merce non era più fresca come al mattino». «La gente era povera e contadina. Quello che importava era potersi permettere qualcosa da mangiare, di buono e fresco. Ora la gente è cattiva».

Addirittura Phong arriva a dire che non vede l’ora di tornare in Vietnam, ma non ci starebbe 3-4 mesi. Perché? Per il governo (e lo sappiamo) e per il cibo. «E’ sempre più chimico, e infatti ci sono sempre più tumori. Le persone che possono hanno iniziato a piantarsi la verdura in terrazza per non doverla comprare». Fanno l’esempio dei polli, della frutta e della verdura, tutto ben noto da questa parte del mondo. Cerco di indagare un po’ per capire se si tratta di semplici persone abituate a mangiare cibo genuino e che sono anti-Ogm in linea di principio, o se c’è altro. Non ne sono uscito con una risposta.

Viene fuori un altro discorso, collegato. «Ora in Vietnam si pensa solo ai soldi. Non si pensa alla salute, né si ha fiducia in nessuno. Sarebbero disposti ad avvelenare pur di avere i soldi». Riassunto: prima era un Paese chiuso, con uno stretto controllo dall’alto, abitato da gente in maggioranza povera con un passato particolare, che tirava avanti. Ora rimane un Paese chiuso, senza grandi libertà, tranne quella economica. Da quando hanno scoperto i soldi per molti vietnamiti essi sono diventati l’oggetto da venerare. Non un Dio, non Ho Chi Minh. I soldi.

«Ora è un brutto Paese: chi ha i soldi manda i propri giovani all’estero». Thang dice che forse in futuro qualcosa potrebbe cambiare grazie alle nuove generazioni, lei scoppia a ridere, ribadendo che i ragazzi scappano. Quelli che possono e quelli che non possono. Sarebbe sbagliato fare un parallelo con ciò che accade nel Mediterraneo, ma anche dal Vietnam sono tanti ad andarsene via mare. Malesia, Filippine, Thailandia, Australia per i più arditi, sono le destinazioni. Non si può fare il paragone perché sono meglio organizzati, ma anche lì muoiono nelle traversate, o incontrano altre problematiche, come i pirati (sì, i pirati) nei pressi della Thailandia. Oppure accadono tragedie, come quando nell’ottobre del 2019 sono stati trovati morti 39 migranti vietnamiti nel rimorchio di un camion vicino a Londra. Poco tempo fa sono stati pubblicati i messaggi audio di saluto che in molti di loro hanno provato a inviare alle famiglie (senza successo perché non c’era campo), accortisi che ormai non potevano uscire da quella trappola mortale. “Sono Tuan, mi dispiace. Non potrò prendermi cura di voi. Mi dispiace. Non riesco a respirare. Voglio tornare dalla mia famiglia. Vivete una buona vita”. Da brividi. (Su un recente Internazionale c’è un lungo articolo sull’episodio e sulla rotta europea dei vietnamiti).

Sono arrivato al termine delle nostre chiacchierate, non prima di aver ascoltato la tecnica della coltivazione del riso a scalini, che consente di poterla fare ovunque, in pianura, in collina, in montagna (le parti più tecniche me le sono perse, confesso), con molte domande ancora da fare, non su come si coltiva il riso. E delle riflessioni.

Come può un Paese che ha visto colonizzatori di varie razze, che ha resistito a una guerra contro la Nazione più potente al mondo, che ha visto andare al comando i rivoluzionari, in cui le libertà sono poche, essere un Paese normale? Il suo popolo forse è meno povero, probabilmente grazie all’economia di mercato, ma più “cattivo”. Coloro che per alcuni lo dovevano difendere, gli Stati Uniti, hanno fatto disastri, ed hanno anche perso. I Vietcong, che avrebbero dovuto portare pace e uguaglianza hanno avuto mancanze su entrambe le cose. Possono il Vietnam, i vietnamiti, Phuong e Thang, affidarsi a santi o eroi? Meglio di no, lo dice la storia.

*Sezione viaggi (prima o poi…): Andate in Vietnam: c’è la storia, ci sono usanze, tradizioni, bellezze naturali, il cibo buono (sperando non sia tutto chimico). Ma se volete un consiglio non richiesto, per qualcosa che rimanga ancora più impresso andate nella vicina e povera Cambogia e girate i luoghi in tuk-tuk, non ve ne pentirete. Anche se i cambogiani hanno “il sangue cattivo”, dice Phuong, alla quale ho ribattuto orgogliosamente che ho adorato quelli che ho conosciuto.

L'Autore

Matteo Guidotti

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