Il Vietnam visto dai vinti – Prima parte

Un lungo racconto sul Vietnam, parlando con dei vietnamiti che vivono in Italia da oltre 40 anni.
Così lungo che ho dovuto dividerlo in due parti, tra qualche giorno ci sarà la prossima.
Lungo anche perché mi sono divertito tanto a scriverlo.
Buona lettura.

Il Tempio della Letteratura ad Hanoi, la capitale del Vietnam, è un grazioso luogo fatto di vialetti, padiglioni, stagni e giardini curati. A un certo punto c’è anche una piazza con una serie di grossi vasi di baobab.

Quando arrivo di fronte alla casa di Phuong e Thang, non avendo capito bene al telefono il numero civico, riconosco subito che si tratta della loro. C’è uno spazio esterno fatto a forma di “L” che circonda la casa, ma soprattutto ci sono una quantità infinita di piante, curate alla perfezione. Ciò che subito mi fa dire “sono nel posto giusto” è un cespuglio tagliato a spirale. Avvicinandosi all’entrata della casa ciò che si nota invece sono enormi cactus, poco vietnamiti, ma che catturano l’attenzione.

Thang era, manco a dirlo, a curare il giardino. Mi apre la porta, e dalla cucina arriva la voce di Phuong: «arrivo». Sta cucinando, e si sente. Il mio olfatto dice anche che si tratta di roba buona. Ciò che ha colpito le mie narici è brodo di pesce, mi spiega in seguito Phuong. Tipico vietnamita. Dello stesso genere del Pho, le zuppe di manzo o di pollo con i noodles.

Phuong e Thang sono vietnamiti, nati e vissuti al Sud, dettaglio importante. Vivevano in città diverse, poi si sposarono nel 1977. L’anno seguente vennero via dal Vietnam (fuggirono) per passare undici mesi in Malesia. Dall’agosto del 1979 sono a Borgo San Lorenzo e da qui non si sono più mossi.

Un Paese lungo e agitato

Prima del loro racconto è utile fare un breve cenno alla geografia e soprattutto alla storia di questo affascinante Paese.
Il Vietnam è lungo 1600km, quindi poco più dell’Italia (già tra i Paesi “lunghi”), confina a nord con la Cina, ha migliaia di chilometri di costa, una moltitudine di isolette e un territorio vario composto soprattutto da colline e montagne. Le città più importanti sono Hanoi al Nord e Ho Chi Minh (ex Saigon) al Sud, anche se va citata Hué per la sua importanza storica essendo l’antica città dell’Imperatore, e straconsigliata su tutte le guide. Anche Phong e Than mi parlano della bellezza di Hué.
Tutti i Paesi al mondo vengono divisi da un punto di vista territoriale in Nord, Centro, Sud, Centro-Nord, Nord-Est, e una serie di varianti. Per anni il Vietnam ha avuto una semplice e famosa divisione. Nord e Sud. Diviso sul serio, politicamente, non per semplificare il lavoro a chi fa le previsioni del tempo. E la storia recente di questo Paese, ora unito, è tra le più pazzesche, raccontate e singolari al mondo.

Andando velocissimi e partendo solo da fine Ottocento, il Paese ha subìto la colonizzazione francese per circa settant’anni, che ha influenzato molto la cultura vietnamita, dal cibo all’architettura. Nella fase finale della seconda guerra mondiale fu la volta della conquista giapponese, durata ben poco. Intanto in tutti questi anni si erano formati gruppi indipendentisti, il più famoso tra i quali fu il fronte Viet Minh, costituito nel Nord e guidato da Ho Chi Minh. Con il vuoto di potere lasciato dall’assenza di colonizzatori esterni, il fronte prese il controllo del Paese e dichiarò l’indipendenza nazionale. Risolta, no? No. I francesi tornarono subito, fino a quando non furono sconfitti dai vietnamiti nel 1954. Qui ci fu l’accordo che divise il Paese in due: al Nord il governo comunista di Ho Chi Minh, al Sud il regime di Ngô Đình Diệm, sostenuto dagli Stati Uniti.

Se tutti questi eventi vi stanno facendo girare la testa, pensate che manca la portata principale. Parlo ovviamente della guerra del Vietnam, durata oltre vent’anni, una sorta di guerra civile tra Nord e Sud. Perché “una sorta”? Lo sappiamo bene il perché. L’intervento degli Stati Uniti nel corso degli anni fu immane, e i risultati di tale intervento furono disastrosi in quanto a vite umane perse, risorse sprecate, popolarità dell’intervento. Non mi fermerò a raccontare niente perché non ne sono competente e perché ci vorrebbero mesi o anni. Uno sicuramente competente, il celebre reporter britannico Max Hastings, ha recentemente pubblicato un libro intitolato “Vietnam. Una tragedia epica. 1945-1975”. Pagine totali: 976. Capito perché sarebbe inutile soffermarsi superficialmente? Se qualcuno volesse approfondire senza sorbirsi il tomo di Hastings (che sicuramente ne vale) consiglio “A pelle di leopardo”, di Tiziano Terzani, anche lui corrispondente dal Vietnam durante la guerra.

Come se non avesse imparato la lezione, successivamente fu il Vietnam a vestire i panni del conquistatore, verso la piccola e povera Cambogia. Adesso il Vietnam è ancora uno dei pochi Paesi al mondo che si definiscono comunisti. Se per certi versi questo è vero, per molti altri, a partire dall’economia, anche no. Ma a raccontare un po’ di cose sarà la voce di chi lo conosce meglio.

Una delle foto iconiche della guerra in Vietnam
Un'altra
Immagini iconiche della guerra in Vietnam

Affezionati, nonostante tutto

Torniamo a Phuong e Thang. Quando provo a spiegare i motivi del mio interesse a farmi raccontare delle cose non sembrano recepire. Cioè, capiscono ma non sembrano molto volenterosi. Questa mia sensazione è rafforzata dal fatto che la prima ora di chiacchierata viene monopolizzata dai commenti su una mappa del Vietnam. Non cercavo informazioni geografiche o sulle caratteristiche di parti del Vietnam, e mi sbagliavo. È stato istruttivo, oltre che divertente, ascoltare i commenti spontanei dei due, battibecchi compresi.

La prima cosa che noto è che i loro occhi sono puntati al Sud. Ovvio, ci sono nati, vissuti e hanno ancora dei parenti, ma noto fin da subito un’acredine verso il Nord. Un’acredine più volte ripetuta, costante, ma anche un senso di resa. Hanno vinto loro.
La seconda invece è l’entusiasmo nel parlare di Vietnam. Sono dovuti fuggire, ma lo vendono come un posto eccezionale. «Quando si potrà, voglio andare qui, tornare lì…», indicava Phuong su decine di luoghi, facendo itinerari per chissà quanti futuri viaggi. Mi sono appuntato i loro sorrisi spontanei mentre immaginavano di poter rivedere i loro luoghi, oltre che i loro familiari. E anche osservando la casa, si nota quanto Vietnam ci sia. Tra le cose che ho notato, un grosso quadro con sfondo nero dove è raffigurata l’antica città imperiale in argento, un ventaglio e qualche soprammobile tipico, fotografie di luoghi del Vietnam e delle bellissime tavolozze in legno con incise delle poesie vietnamite.

Il primo racconto è del loro ultimo viaggio nel Paese di origine. Era il 2008 e con dei familiari fecero il Vietnam da fondo a cima, dalla città di Ho Chi Minh (che loro continuano a chiamare Saigon) alla baia di Halong, un arcipelago di migliaia di isolette che è una meraviglia dell’umanità (ci sono stato, lo dico con cognizione). Presero un pulmino pagando 600 dollari per tutto il viaggio (ora costa di più, tengono a specificare nelle loro invettive contro il peggioramento del loro amato Paese). Mostrandomi col dito il percorso, Phuong si soffermava a parlare dei luoghi di interesse che incontrava. Hué, bellissima, dove stava l’Imperatore, che è proprio ai piedi di una catena montuosa. I templi di My Son, simili a quelli cambogiani (altra meraviglia). Il fiume Quang Tri, poco sotto al vecchio confine tra Nord e Sud, situato sul famoso 17° parallelo. Poi le descrizioni eccitate della bellezza degli altopiani della provincia di Dak Lak, dove coltivano il caffè, e delle montagne a Nord di Hanoi, al confine con la Cina. Si soffermano a parlare della vita su quelle montagne dove la modernità non è arrivata, caratterizzata dalle varie influenze presenti: cinesi, originari del Laos, ma anche cambogiani fuggiti ai tempi dei Khmer Rossi e thailandesi.

Consigliano, “quando torni in Vietnam” (cosa che farei volentieri subito, ma non è semplice come andare chessò, a Lucca), di fare il percorso che hanno fatto loro, ma tra i canali e i fiumi. Avendo fatto esperienza di un trasferimento via fiume in Cambogia temerei per alcune cose, tra cui il sedere (per i sedili scomodi) e le orecchie (per i motori rumorosi), ma sarebbe un’esperienza indimenticabile, so anche questo. Infine mi indicano un luogo del Sud, Gu Chi, non molto distante da Saigon, dove dei tour operator portano a far vedere i nascondigli dei comunisti sotto terra.
«Ma cosa vanno a fare?! Sono dei tubi!», commenta con aria sdegnata Phuong. Rido.

Ma questo racconto spontaneo è quello che mi dà l’occasione per addentrarmi un po’ nell’argomento che mi ero proposto. Dopo una piacevolissima lezione di geografia vietnamita, volevo passare alla parte storica. Temevo però di non ricavarne troppo. Sono persone fuggite, magari non hanno voglia di raccontare. Inoltre ricordo di aver letto da più parti che molti cinesi, pur scappati, parlano malvolentieri del loro Paese, e raramente si trova qualcuno che voglia parlarne male. Magari anche loro erano così.

Invece, appena imbeccati, diventano un fiume in piena.

«Perché siete venuti via?»

«Comunitti». Immediata e lapidaria la risposta di Phuong.

L'ingresso dei Vietcong al Palazzo Presidenziale di Saigon, 30 aprile 1975

Qui va aperta una parentesi. La storia è costituita da fatti realmente accaduti. Se i dati sono abbondanti (e sul Vietnam la storiografia è enorme) si possono avanzare giudizi sui fatti. È innegabile come la guerra del Vietnam sia stata tra un regime sostenuto e aiutato copiosamente dalla Nazione più potente al mondo, e un gruppo di combattenti poco armati, magari aiutati a loro volta, ma meno. E che i potenti siano stati sconfitti da dei semi-improvvisati che hanno resistito anni. Davide contro Golia. Qui non si tratta di sostenere per forza i più deboli, ma va detto di quanto l’opinione pubblica mondiale abbia appoggiato la causa dei Davide, e di come quella guerra abbia influenzato anni e anni di politica internazionale. E delle ragioni che avevano i rivoluzionari, futuri vincitori. Ma la storia non è un blocco monolitico. All’interno della grande storia, quella generale (Vietnam del Sud e Usa  vs  Vietcong), ci sono infinite micro-storie, particolari, che non cambiano il giudizio generale, ma aiutano a comprendere meglio. Ed è per questo che è giusto ascoltare la voce dei vinti anche quando, talvolta per fortuna accade, vinti e deboli non coincidono. Ovvero quando ad essere vinti sono i “potenti”.

Parte qui un flusso di racconti, ricordi e critiche cui a volte non riesco a star dietro. Spesso ho dovuto chiedere spiegazioni, alcune volte ho perso dei passaggi, altre non ho proprio capito. Nel corso delle chiacchierate a parlare è stata soprattutto Phuong, perché parla meglio l’italiano e perché è una donna forte e decisa. In questo caso invece parlavano entrambi, a volte si sovrapponevano, altre si contraddivano. Avevano voglia di parlarne, questa è stata la più bella sorpresa.

«Quando sono arrivati tutti erano felici (loro no, ndr), tutti pensavano “ora non muore più nessuno”. Si sono presentati dicendo “Aiutiamo la gente”, e in molti ci hanno creduto. Ma la festa era prima di tutto per la fine della guerra». Il giudizio è sicuramente viziato dal loro pensiero, e dalla loro opposizione ai Vietcong per esperienze già vissute. Ma in effetti in tutto il mondo si esultava perché “The war is over”, prima ancora di festeggiare la vittoria di un regime comunista, rivoluzionario, su un regime capitalista appoggiato (parecchio) dagli Stati Uniti. Poi che ci fosse il mito di Ho Chi Minh e per i Vietcong anche questo è appurato.

Se fossi uno di quelli bravi farei delle sottocategorie delle esperienze raccontate, che si potrebbero riassumere forse in: controllo, indottrinamento, produzione. Ma non sono di quelli bravi perché alcune cose finirebbero in più categorie, quindi vado in ordine sparso.

Una delle più raccontate e curiose è quella dell’oro. Comunque la si pensi il nuovo regime era comunista, quando ancora il comunismo era quella roba lì. Quindi: controllo, uguaglianza, gestione statale. Giusto, sbagliato, chissenefrega ora. Solo per dire che quando sono andati al potere in Vietnam hanno fatto le cose che avrebbe fatto qualsiasi regime comunista.
«Per i primi tempi hanno dovuto organizzarsi, poi hanno fatto il sistema». Chiusura delle attività dei più ricchi, come prima cosa. E controllo capillare su tutte le altre.
«Arrivavano nel negozio e facevano due cose: segnavano tutta la merce che avevi in negozio in modo da sapere cosa e quanto vendevi, e prendevano l’oro», dice Phuong. Ma l’oro andavano a prenderlo anche nelle case:
«Entravano la notte e mettevano in stanze diverse il marito, la moglie e i figli, poi chiedevano dov’era l’oro, così che da separati era più complicato mentire. Poi una volta preso dicevano “Vi lasciamo aghi e fili”. Che bravi!», commenta ridendo (ora) Phuong.

Riesce a prendere parola Thang, che racconta di altro. Lui lavorava nella ditta familiare di bombole di rame per l’agricoltura, ormai da 15 anni. Quando arrivarono i Vietcong le fabbriche furono costrette o a lavorare direttamente per il governo, oppure addirittura a vedersi portar via i macchinari che sarebbero stati spostati in luoghi al Nord. Ma l’aneddoto divertente è quello in cui, non senza difficoltà, racconta del negozio della moglie:
«Il suo negozio non fu toccato perché suo zio, che era andato al Nord molti anni prima, aveva studiato in Cina, ed ora è un importante Vietcong, ministro di qualcosa (che non ho capito, ndr)». Su un altro argomento Phuong l’avrebbe sicuramente interrotto, ma era imbarazzata dall’argomento e sorrideva soltanto.

Lo zio Vietcong mi dà l’assist per parlare di indottrinamento. Caratteristica portante dei comunismi, quindi niente di strano. I ragazzi andavano a studiare, o “a farsi il lavaggio del cervello” come lo descrive Phuong, oppositrice dichiarata. Più significativo è il racconto delle assemblee pubbliche organizzate ogni sera, specie nel periodo dopo la vittoria, che duravano ore e a cui si era obbligati ad andare.

Altre cose che mi sono segnato dei loro ricordi. Il razionamento, innanzitutto. «Davano 13kg di riso a persona al mese, anche la carne era razionata. Facevi delle lunghe code e poi magari la roba finiva, anche perché loro se la intascavano. Alla fine la soluzione si creò da sola: il mercato nero».
E questo iniziò a valere non solo per il cibo, dato che tutto il commercio era sparito, e tutto veniva gestito dalle innumerevoli cooperative che si crearono fin da subito. «Ti prendiamo la terra perché facciamo una cooperativa. E il contadino, che già aveva poco, rimaneva senza nulla».

Oppure il racconto del cognato di lei, professore critico dei Vietcong, che si è dovuto nascondere per anni.
Ancora, l’aumento della produzione di riso. Il Vietnam è uno dei maggiori produttori di riso al mondo per le sue caratteristiche territoriali, ma con i Vietcong la produzione si ampliò. E come? Creando canali per mandare l’acqua nei campi di riso (sì vabè prendete la spiegazione con le pinze). Ovviamente è un lavorone perché si parla dei campi di un intero e grosso Paese. Quindi ci voleva chi facesse il duro lavoro. E chi se non i “volontari”? Anche Thang fece questa esperienza, e si capisce che non fosse proprio un volontario. Dice di esserci stato “solo” due mesi, mentre tanti altri, anche perché di solito prendevano la gente povera, ci sono stati anni. Particolare di non poco conto: la terra, quella che i “volontari” scavavano, aveva visto decenni di guerra. Ed era quindi un luogo in cui furono nascoste una grande quantità di mine. E ora i “volontari” avrebbero scavato quei terreni, a loro rischio e pericolo. Inutile dire che gli scoppi avvenivano frequentemente.

Non avendo ragione di dubitare della sincerità, questi ed altri episodi spiegano perché i due vietnamiti abbiano deciso di venire via dal loro Paese. Nei loro racconti si nota l’avversione verso i loro “carnefici”, e questo magari li porta ad ingigantire alcune situazioni o a non valutare lucidamente le questioni. Ma si nota anche la verità, la specificità della vita vissuta, di cose subìte. Sono incazzati sì, anche col Vietnam attuale, ma sono anche colti, sanno moltissime cose e sono informati su quello che avviene oggi, in Italia come in Vietnam.

«I ricchi scapparono subito perché poterono, altri come noi ci misero un po’ a organizzarsi ma ce la fecero, tanti poveri cittadini non riuscirono, anche se avrebbero voluto».

«Da sempre, anche dopo la vittoria, i Vietcong si basarono sulla dicotomia: loro cattivi – noi buoni». Oh, ferma tutto, devo avere avuto un herpes, dato che questo sfogo non mi è nuovo, direbbe Caparezza.

Continua

L'Autore

Matteo Guidotti

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